Dietro le quinte del fast-fashion
Pensi di sapere davvero tutto ciò che si cela dieto l’industria del fast-fashion? In questo articolo proviamo a svelarti qualche segreto in più, mostrandoti la catena di montaggio costruita attorno ad una delle industrie più inquinanti al mondo: quella della moda.
Il modello fast-fashion è INSOSTENIBILE sia dal punto di vista etico che ecologico. Proprio come il capitalismo si è rivelato un sistema incapace di “rigenerare” il tessuto socio-economico, accentuando le disparità e le disuguaglianze tra i popoli ed innescando la crisi ambientale globale, così il business del fast-fashion, sfruttando un numero significativo di risorse umane e ambientali, inizia ad apparire come una nota stonata nella melodia composta dagli obiettivi dell’Agenda 2030.
Mai come adesso le nostre scelte pesano sul futuro del pianeta e mai come ora è fondamentale comprendere le conseguenze delle nostre azioni quotidiane, anche quelle più semplici come l’acquisto di una t-shirt.
Molti di noi sanno che per produrre una t-shirt sono necessari circa 2.700 lt d’acqua. Immaginiamo di produrre 450 milioni di articoli all’anno (come fa un noto marchio di fast-fashion). Se la matematica non è un’opinione, dovremmo destinare esattamente 1.215.000.000.000 lt di acqua al solo processo produttivo (ipotizzando che tutti i capi siano realizzati in cotone e siano solo t-shirt). Secondo i dati 2019 dell’UN Environment Programme, l’industria della moda è infatti responsabile del 20% del consumo mondiale di acqua.
E se al posto del cotone utilizzassimo il poliestere?
Anche in questo caso non aiutiamo l’ambiente. Il poliestere è una fibra sintetica ricavata dal petrolio che da solo rappresenta la metà del consumo mondiale di fibre tessili. Alla pari di qualsiasi altro prodotto a base di combustibili fossili, come il PVC, la sua lavorazione sprigiona considerevoli quantità di gas serra. Inoltre, durante il processo di produzione, vengono utilizzate sostanze chimiche tossiche, che spesso permangono sui vestiti che indossiamo. Se volete approfondire l’argomento, vi consigliamo di leggere anche l’articolo “Il lato oscuro della moda Vegan”.
La stragrande maggioranza dell’abbigliamento venduto in Occidente proviene dal sud-est asiatico. Ciò significa che una volta realizzati, i vestiti devono percorrere migliaia di km per arrivare ai centri di distribuzione in Europa e in America. E secondo voi come viaggiano i vestiti? Ovviamente in aereo o in mare! Calcolando che il ciclo produttivo di un capo fast-fashion è di circa 5 settimane, il processo distributivo è come un interruttore sempre acceso, con milioni di prodotti che varcano ogni giorno i confini dei Paesi occidentali generando generose quantità di CO2.
Una volta giunti nelle nostre case, questi vestiti continuano ad inquinare lungo l’intero ciclo di vita. Il lavaggio di indumenti sintetici rappresenta il 35% del rilascio di microplastiche primarie nell’ambiente. Un solo carico in lavatrice può rilasciare fra le 700.000 e i 12 milioni di microfibre che finiscono in mare e tornano nei nostri piatti!
Che fine fanno gli abiti dismessi?
Il fast-fashion spinge ad accorciare il ciclo di vita dei prodotti che, nella maggior parte dei casi, finiscono nella spazzatura o in discarica anche dopo pochi mesi. Ciò è dovuto non solo alla scarsa qualità delle materie prime utilizzate, ma ad una subdola strategia persuasiva che ci spinge a rifiutarci di indossare la stessa cosa più di una volta, dando vita a una vera e propria relazione di dipendenza dallo shopping.
Una volta giunti in discarica i vestiti impiegano anche fino a 200 anni (come nel caso del poliestere) per decomporsi, specialmente quelli in fibra sintetica.
Riciclare gli abiti può rappresentare una soluzione?
Certamente, ma serve solamente ad arginare il problema. Innanzitutto, non tutti i capi possono essere riciclati. Quelli caratterizzati da fibre miste (ad esempio, 50% cotone 50% poliestere) sono quasi impossibili da riciclare. Al giorno d’oggi solamente l’1% degli abiti dismessi viene riciclato. Inoltre, il processo di riciclo delle fibre richiede ingenti quantitativi di energia e di agenti chimici, senza considerare che, una volta riciclati, le nuove fibre entreranno a far parte di un nuovo ciclo produttivo e distributivo.
Il fallimento dell’economia lineare ha segnato l’ascesa del modello circolare, che ha unito le due estremità del processo lineare (materie prime e rifiuti), riportando i rifiuti all’inizio della catena produttiva e utilizzandoli come materia prima . Mirco Mariucci (L’inganno dell’Economia circolare, 2019) ci spiega perché un modello di economia circolare, così inteso, risulta a lungo andare anch’esso inefficace:
- Non tutte le materie prime possono essere riciclate;
- non tutto ciò che può essere riciclato, può essere rimpiegato per la medesima finalità di partenza;
- non tutto ciò che può essere riciclato , può essere riciclato all’infinito;
- produrre, consumare, riciclare non sono attività “innocue” per l’ambiente;
- una parte di materia/energia viene irrimediabilmente ed inevitabilmente “dissipata” durante le fasi di produzione, consumo e riciclaggio.
E’ chiaro che il nocciolo della questione sta nel consumo stesso. Il consumo innesca la produzione e genera rifiuti. Rivalutare il proprio approccio alla moda e le proprie abitudini di acquisto rappresentano azioni importanti capaci di indirizzare il settore della moda verso una produzione ed un consumo più sostenibile per chi lavora, per chi acquista e per il pianeta che ci ospita.